Nelle vie del Cairo dove regnano gli sgherri del regime. Morto un reporter egiziano
È chiaro che il regime ha dato l’ordine di stroncare il lavoro dei reporter: un compito che il soldato svolge con paternalismo, il poliziotto con arroganza, la polizia segreta e gli sgherri prezzolati con brutalità. Più in generale, la psicosi della spia straniera ha portato all’arresto di numerosi ignari occidentali. Oggi piazza Tahrir dà l’ultimo penultimatum al regime. Tre quarti del mostruoso conglomerato da 15-20 milioni di abitanti della capitale vive la sua vita complicata senza avvertirne neppure il frastuono.
La spianata del Museo Egizio appare tranquilla, il difficile è arrivarci. Nelle zone di accesso si aggirano bande di ragazzotti «nazionali», agenti del Mukabarat (i servizi), avanzi di galera e poliziotti che ieri hanno molestato e aggredito in tutti i modi i giornalisti. Prendiamo un taxi e chiediamo di essere portati in piazza Talat Harb, alla pasticceria Grotti. Stratagemma abbastanza stupido, perché tutti sanno che la pasticceria è chiusa e che piazza Harb è come dire piazza Tahrir, il luogo più proibito della città.
Dobbiamo fare un lungo giro, perché la via più diretta, lungo la tangenziale, è sbarrata dai blindati. Passiamo alle spalle dell’Hilton e c’infiliamo in un quartiere popolare. Il traffico si pianta: posto di blocco. Sono giovani arrabbiati con gli occhi fuori dalle orbite, omoni con la barba lunga e grandi mazze nere in mano. Perquisiscono gridando il baule della macchina.
Uno si accorge che c’è uno straniero e si mette a urlare come una scimmia. Una decina di ceffi circondano l’auto. «Pasport» urla sdentato un rondista che ha messo la testa dentro il finestrino. Vedo il mio documento passare di mano in mano come in una partita di basket. Arriva a una montagna d’uomo con la barba e un liso giubbotto militare. Tornano tutti verso la macchina coi bastoni. Marca male. Mi chiedono: «Dov’è la borsa?». Rispondo che non ce l’ho. È chiaro che hanno l’ordine di cercare telecamere e macchine fotografiche. Senza sacca devo sembrare un po’ sfigato: perquisiscono un’altra volta la Yundai grigia. Poche ore dopo, poco più in là, Federica Bianchi dell’Espresso rifiuterà di consegnare la sua borsa e se la ritroverà squarciata da una coltellata. La giornata segna anche la prima vittima fra i reporter. Ahmad Mohamed Mahmoud lavorava per il quotidiano Al-Tàawun e il 28 gennaio era stato colpito alla testa da un cecchino vicino a piazza Tahrir. Quello grosso, che sembra il capo, sempre col mio passaporto in tasca, sale in macchina e comincia a dare ordini all’autista. «Poliziotto?» gli chiedo. «Egiziano», risponde. Ci infiliamo in una piazzetta laterale e passiamo davanti a un lercio caffè. Imbocchiamo una via isolata. Marca malissimo. Al fondo però spunta inaspettatamente una caserma dell’esercito con davanti una ventina di ragazzi filo-regime.
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