L’ingresso del dipendente in azienda in giorno non lavorativo in assenza di apposita autorizzazione da parte dei vertici aziendali non integra una condotta tale da legittimarne il licenziamento. E’ quanto affermato dalla sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che – con la sentenza n. 35 depositata il 3 gennaio 2011 – ha rigettato il ricorso proposto da una s.r.l. contro la pronuncia d’appello.
Il Giudice del lavoro di Milano ha accolto il ricorso proposto da un lavoratore contro il licenziamento disciplinare intimatogli dalla società datoriale per essere entrato in azienda in un giorno non lavorativo in assenza di apposita autorizzazione.
Sull’ingresso in azienda fuori dell’orario di lavoro. Al riguardo, il Tribunale ha ritenuto non sussistere alcun comportamento contrario ai doveri di fedeltà da parte del lavoratore, che si era rifiutato di informare i vertici aziendali in ordine a fatti gravi e pregiudizievoli per l’azienda di cui era venuto a conoscenza.
Ricorreva per cassazione il datore di lavoro, rilevando come la motivazione adottata dalla sentenza impugnata fosse errata dal momento che gli addebiti contestati, davano luogo ad una grave violazione dei doveri di fedeltà, lealtà, correttezza e buona fede insiti nel rapporto di lavoro subordinato.
Per quel che riguarda la presunta violazione dei doveri di fedeltà, lealtà, correttezza e buona fede insiti nel rapporto di lavoro subordinato, per essersi il dipendente rifiutato di comunicare ai vertici aziendali i fatti pregiudizievoli per l’azienda e di cui era venuto a conoscenza, i giudici di legittimità osservano come la società datoriale fosse già a conoscenza di tali fatti, sulla base delle prove testimoniali dedotte in giudizio dalla società stessa (nel corso di una telefonata effettuata il 18.5.2002 dal lavoratore ad un suo collega il primo aveva riferito “di avere buone ragioni per ritenere che, la mattina dello stesso giorno, fossero entrate in azienda persone che stavano istallando o rimuovendo microspie”). Da tale circostanza la Corte di merito ha correttamente rilevato che, essendo i fatti in realtà a conoscenza della società, doveva escludersi la possibilità di ravvisare nella condotta del dipendente un comportamento contrario ai doveri di fedeltà e lealtà.
Pertanto, sulla base di tali considerazioni, la Suprema Corte ha confermato l’illegittimità del provvedimento disciplinare adottato dalla società, in quanto tale provvedimento si appalesava comunque sproporzionato rispetto alla entità ed alla portata dei comportamenti contestati.
Fonte: La Stampa