È successo a Rimini qualche giorno fa: un esercito di mamme si è riversato per le piazze della città al grido di “Vogliamo le telecamere nei nidi e nelle scuole dell’infanzia!”. Uno slogan che si aggancia a una battaglia iniziata tempo fa sul web, con la raccolta di firme e petizioni, e cresciuta a tal punto da sfociare in un incontro diretto con le autorità comunali. A mobilitare le donne sarebbe stato un episodio di maltrattamento nei confronti di alcuni bambini di una scuola d’infanzia cittadina, anche se il malcontento era già nell’aria, inasprito dal dilagare di casi simili in tutto il Paese.
In sede di dibattito, però, le autorità si sono dimostrate irremovibili: le telecamere installate sul posto di lavoro sono vietate per legge. Di buono c’è che si è aperto comunque uno spiraglio con l’avvio a breve termine di commissioni di vigilanza costituite da genitori e membri delle istituzioni. Non una vera vittoria, insomma, ma una mezza conquista che perlomeno terrà a bada per un po’ gli animi inaspriti delle povere mamme.
Al di là dell’esito più o meno favorevole della manifestazione, l’episodio in sé deve comunque far riflettere sull’utilità di un impianto di videosorveglianza in zone o ambienti a rischio maltrattamenti come asili, scuole d’infanzia od ospizi. Non a caso, se le telecamere hanno una certa valenza di legittimità in ambito di sicurezza pubblica, non si capisce perché il loro utilizzo non possa allargarsi anche alla salvaguardia di persone deboli e indifese come minori e anziani. La tecnologia per la sorveglianza audio-video per fortuna esiste, anzi, si evolve in continuazione per venire incontro a queste e a mille altre problematiche di sicurezza personale. Resta solo da capire se quello che si fa per i propri cari in tale direzione sia, con cognizione di causa, un reale abuso o piuttosto un atteggiamento ammirevole degno di qualsiasi società civile.