Negli Stati Uniti sono già partite una class action, un’interrogazione al Congresso e un invito per Apple e Google a comparire davanti ad un procuratore generale. In Italia, Francia, Germania e Corea del Sud sono invece state le Autorità per la Privacy e la Comunicazione le prime a mobilitarsi.
A meno di una settimana dalla scoperta che i dispositivi Apple (iPhone, iPad e iPod 3G) e Android raccolgono informazioni dettagliate su tutti gli spostamenti del proprietario, si infiamma il dibattito sulla privacy degli smartphone e tablet di nuova generazione. Dalla polemica sul “file nascosto” facilmente accessibile da chiunque, ora l’attenzione si è spostata sull’utilizzo che Apple e Google fanno dei “geo-data” (informazioni localizzate) raccolte sui dispositivi mobili e poi conservati nei propri database. Sono davvero protetti e trattati in maniera anonima? E perché gli utenti non vengono adeguatamente informati sulle finalità di questa raccolta dati?
Le reazioni di Google e Apple – Se, da una parte, Google ha scelto la strada della trasparenza, spiegando da subito che la raccolta di dati è limitata e comunque necessaria per offrire servizi di localizzazione migliori (come, ad esempio, le mappe aggiornate del traffico), ancora non è arrivata nessuna risposta ufficiale da parte di Apple. L’unica presa di posizione sul tema risale a circa un anno fa, quando in una lunga lettera inviata a due Senatori statunitensi, la casa di Cupertino ammise di raccogliere “in maniera intermittente” le coordinate spaziali dei propri utenti. I geo-data – spiegava il colosso di Steve Jobs – vengono prima salvati sul dispositivo, poi resi anonimi attraverso un numero di identificazione e infine inviati ogni 12 ore ai server Apple dove vengono conservati in un database accessibile internamente. Per gli utenti più attenti alla privacy – garantiva Apple nella lettera – è sempre possibile disattivare le funzionalità di localizzazione e così essere sicuri di non essere più “spiati”.
Comunque spiati – Ma le cose non sembrano stare davvero così. Secondo un’indagine condotta da un ricercatore indipendente e pubblicata lunedì 25 aprile sul Wall Street Journal, l’iPhone 4 continua a raccogliere informazioni sugli spostamenti del proprietario anche quando le funzionalità di localizzazione sono disattivate. Non basta, cioè, spegnere il pulsante “Localizzazione” dal menù delle Impostazioni del proprio iPhone, per essere al riparo dalla raccolta dati di Apple. Resta poi aperta la questione di quanto siano davvero anonime queste informazioni: a differenza di un pc, uno smartphone permette di risalire molto più facilmente all’identità del proprietario, soprattutto se questi dati vengono conservati per un lungo periodo di tempo.
Poca sicurezza – Nella lettera inviata al Senato lo scorso anno, Apple era rimasta molto sul vago sulle finalità di questa raccolta dati: “I database (con le informazioni di localizzazione degli utenti, ndr) devono essere aggiornati di continuo per rendere conto, tra le altre cose, di come cambia il contesto fisico, di funzionalità innovative della tecnologia mobile, e del numero crescente di utenti Apple”. La casa di Steve Jobs non spiegava perché, per offrire migliori servizi, questi dati dovessero essere conservati per circa dieci mesi, come hanno messo in luce Peter Warden e Alasdair Allan della scorsa settimana. I due ricercatori hanno anche dimostrato come Apple non protegga adeguatamente queste informazioni: al momento vengono trasferite automaticamente da un dispositivo all’altro e sono facilmente visualizzabili anche da terzi.
Mercato mobile – Mentre i due colossi hi-tech non si sbilanciano più di tanto sull’utilizzo di questi database, per gli analisti del Wall Street Journal la risposta è piuttosto scontata: “Google e Apple stanno raccogliendo informazioni geo-localizzate per costruire giganteschi database in grado di individuare dove si trovino gli utenti attraverso i loro cellulari. Questi database sono fondamentali per espandersi in un mercato dei servizi basati sulla localizzazione che si aggira intorno ai 2,9 miliardi di dollari e che, secondo l’istituto di ricerca Gartner, salirà a 8,3 miliardi di dollari nel 2014”. Per un’azienda come Google i cui profitti sono generati quasi esclusivamente dalle pubblicità mirate, il settore mobile rappresenta la nuova gallina dalle uova d’oro. E lo stesso vale per Apple, che attraverso il network iAd vuole ora giocare un ruolo importante in questo mercato emergente.
Maggiori regole – Ad avvalorare ulteriormente l’ipotesi delle pubblicità mirate si è poi aggiunta la rivelazione di un brevetto depositato lo scorso marzo dalla “mela morsicata” con il nome “Location histories for location aware devices”. Il brevetto descrive come il database Apple con le informazione geo-localizzate possa essere “correlato” ad informazioni ancora più dettagliate, come “i dati associati a transazioni finanziare e ad attività di comunicazione (ad esempio, una chiamata telefonica o un messaggio di testo)”. Come dire: oltre alla mappa di tutti gli spostamenti, sarebbe anche possibile risalire a cosa stava facendo il proprietario in un determinato luogo e momento.
Se da una parte è bene ricordare che Apple ogni anno deposita centinaia di brevetti e che non tutti vengono poi lanciati sul mercato, dall’altra è anche giusto sottolineare come il tema della privacy sui dispositivi mobili sia ancora del tutto opaco e per nulla regolamentato. C’è da sperare che la mobilitazione di utenti e autorità contro Google e Apple serva per lo meno a fissare regole più certe a garanzia della privacy dei consumatori.